Il relativismo

di Ludovico Polastri

 Il metodo su cui la scienza odierna basa le proprie affermazioni è la capacità di rendere il più oggettivo possibile l’evento che vuole studiare. In altre parole si deve necessariamente spersonalizzare per dare forza alle proprie affermazioni. Tuttavia dobbiamo affermare che questo metodo è solo una mera intenzione. Non è possibile infatti essere contemporaneamente “oggettivamente scientifici” ed esseri pensanti: se da una scienza rigorosamente oggettiva, si pretendesse che ricavi il proprio contenuto solo dall’osservazione, allora bisognerebbe pretendere anche che rinunci a tutto ciò che per sua natura va oltre ciò che si osserva. Se l’osservare fosse il semplice sgranare gli occhi su un oggetto senza pensare alcunché, l’osservazione non sarebbe molto diversa da quella fatta da un animale o da un soggetto allucinato. Questo dilemma moderno ha le sue radici nella nascita e nello sviluppo storico della scienza stessa. Se andiamo indietro di qualche secolo, il vero significato della scienza moderna o il modo di pensare che ne sta alla base ci appare in due speciali testimonianze. Si tratta di due pubblicazioni significative distanti un secolo circa una dall’altra: la pubblicazione del cardinale Nicolò Cusano (1401-1464) della “Docta ignorantia” (1440), e la “De revolutionibus orbium coelestium” (1543) di Copernico (1473-1543). Nella prima vi è l’ammissione chiara che la conoscenza di allora non era più in grado di raggiungere in modo diretto lo spirito e che esclusivamente attraverso la più certa fra le scienze, la matematica, sarebbe stato ancora possibile sperare di avvicinarvisi, mediante figure simboliche. Nell’altra pubblicazione, quella di Copernico, il pensiero matematico, il sapere matematico, viene invece applicato alla descrizione dell’universo, rivelato dalla sicura matematica. Da questo momento in avanti il mondo comincia ad essere visto in modo meccanico: se per i saggi antichi l’universo non era un complesso meccanico, ora incominciava a divenire ciò che appare agli uomini d’oggi: un meccanismo. Per gli antichi, che erano personalmente inseriti nella spiritualità universale, il cosmo era un insieme vivente, un ente che tutto compenetrava e che comunicava loro attraverso un linguaggio cosmico, che sentivano vivere e operare entro l’infinito, il quale coi fenomeni cosmici rispondeva alle domande sui grandi problemi che essi ponevano all’universo. L’uomo sentiva che lo spirito era presente ovunque e che ovunque poteva essere percepito. Guardando dentro di sé invece, egli riusciva a percepire l’anima, l'”animatrice” del pensiero e perciò diventava messaggera dello spirito. Era con l’anima che sapeva di poter cogliere il mondo materiale-corporeo, come immagine dello spirito. In questa antica sapienza, non esisteva contraddizione fra corpo ed anima, né fra natura e spirito. E poiché il corpo umano era percepito come affine a tutti gli altri corpi della natura, l’uomo si sentiva un’unità, un “monon” con tutto il rimanente mondo, in quanto era capace di farsi consapevole della figura originaria dello spirito e della vastità dell’universo. Non vi era contrasto fra soggetto interno e oggetto esterno. Il contrasto fra il soggetto che sta dentro di noi e l’oggetto che sta fuori, è tipico invece dei tempi moderni, di quando cioè la natura si pone come méta l’indagine “oggettiva”. Ma il cosiddetto “oggettivo” degli scienziati attuali non è la “natura” degli antichi.”Oggettivo” oggi è solo “ciò che è dotato di corporeità materiale”, e in cui non viene più scorto nulla di spirituale. In tal modo la natura, che deve essere compresa da me come qualcosa che sta fuori di me, diventa priva di spirito. L’uomo si mette alla ricerca di una scienza naturale esteriore in quanto ha perduto il proprio nesso interiore con la natura. Di tale perdita è testimone lo spirito stesso del nostro linguaggio: è notevole l’incongruenza che ci mostra la parola “natura” che è legata al concetto di “nascere”, mentre quel che oggi si intende per “natura” è solo e soprattutto un mondo che abbraccia, “scientificamente” solo ciò che è a noi esterno. Anche la posizione attualmente assunta nei confronti della matematica e del suo rapporto con la realtà è significativa per la comprensione dell’attuale pensiero scientifico: per un matematico d’oggi esporre la geometria significa prendere le mosse dalle tre dimensioni dello spazio. Nello spazio tridimensionale egli distingue tre direzioni, ma non sarebbe mai giunto a concepirle, se non avesse la possibilità di sperimentarle con semplici gesti che quotidianamente facciamo. Questi tre orientamenti dell’uomo vengono oggi considerati come qualcosa a lui esterno: i processi che nell’organismo si svolgono essenzialmente dall’avanti all’indietro, da destra a sinistra (o da sinistra a destra) e dall’alto in basso, non vengono sperimentati nella loro qualità interiore, ma solo osservati esteriormente: lo schema spaziale escogitato dalla geometria analitica che pone un punto in uno spazio astratto e traccia tre coordinate ortogonali, è sentito come vuoto e separato da qualsiasi sua esperienza. E’ anche per questo motivo che la matematica insegnata a scuola è spesso vissuta dagli studenti come qualcosa di ostile. Non si tratta di antipatia immotivata verso questa materia, bensì del fatto che essa è stata nel corso di questi ultimo quattro secoli via via sempre più “disumanizzata” e rendendola estranea al proprio corpo umano. La differenza fra l’antica concezione di matematica, legata all’esperienza umana, e quella moderna sradicata dalla vita interiore, appare inoltre caratterizzata anche dal fatto che oggi non si percepisce più la distinzione fra “concetto” (contenuto concettuale, spirituale) e “parola” (materializzazione sonora o scritta del concetto). I nomi dei numeri sono esempi di tale allontanamento. Si pensi per esempio alla parola “due”, etimologicamente formatrice della parola “dubbio”, che è uno stato d’animo incerto fra pensieri diversi o contrari ondeggiante quasi fra “due” pensieri. “Due”, in tedesco “zwei”, esprime ancora distintamente un processo concreto: il verbo “entzweien” significa infatti “spaccare in due”, “separare”, ed ha anch’esso un’affinità con il dubitare, che si dice “zweifeln”. Se poi si tiene presente che la lettera U in latino si scrive V, si ritrova ancora un nesso con le lettere “dv” della parola italiana “dividere”. Ciò dovrebbe bastare per prendere coscienza (o meglio riprendere coscienza) del rapporto fra matematica e interiorità. Molte cose del nostro comune parlare sono tenute insieme da un vero e proprio meccanismo logico continuamente alimentato dallo spirito del linguaggio. Grazie all’osservazione del linguaggio si può prendere atto di come sia profondamente radicato nella cultura odierna uno dei problemi della nostra civiltà. L’idea di “mistica” ha assunto sempre più nei tempi moderni un senso problematico dovuto all’uso ideologico-confessionale del termine. Nei primi secoli cristiani però mistica e matematica venivano poste sul medesimo piano di importanza. La vera mistica era ciò che si sperimentava nell’anima. La matematica era una mistica che si sperimentava anche esternamente, tramite il corpo. In questi ultimi quattro secoli, in cambio di costruzioni matematiche, la maggioranza degli esseri umani ha strappato via la matematica dalla sua connessione con l’interiorità, perdendo gradualmente anche l’esperienza del movimento corporeo precedentemente posseduta . Ciò che permise la nascita dell’astronomia copernicana fu un fatto storico determinante. La matematica (màthesis) era mistica oggettiva, e gli esseri umani, vivendo dentro l’astronomia, sapevano misurare il cosmo mediante il loro organismo in movimento. Poi posero nel cosmo un sistema di coordinate. Ma da tale sistema appena nato essi stessi uscirono progressivamente. L’affermarsi del sistema copernicano è insomma la naturale conseguenza derivante dalla progressiva perdita nell’uomo dell’antica facoltà di sperimentare le cose in se stesso. Questo punto non è considerato dalla nostra cultura attuale, eppure è un importante fatto della storia dell’umanità: poter ammettere il centro di un sistema al di fuori della sfera terrestre consisteva in una completa sovversione dell’atteggiamento psichico dell’umanità civile di allora. Chi sa veramente immaginarsi i fatti, non può non riconoscere la nascita del pensiero scientifico moderno connesso con tale elemento di sovversione. Ed è in questo contesto che Giordano Bruno si rese conto che non era assolutamente evolutivo per l’umanità passare dal dogmatismo allo scientismo. Oggi si dice: “è scientificamente dimostrato”. Ieri valeva: “è un dogma di fede”. Ambedue queste espressioni chiudono ogni possibile apertura alla ricerca della verità ed è questo che Giordano Bruno aveva presentito, tanto da non dare eccessivo spazio alla depurazione della matematica dalla mistica. Egli infatti, possedendo ancora l’esperienza interiore, si esprime sull’universo in modo più lirico che matematico. Soprattutto, si esprime sul sistema copernicano in un modo diverso da come si espressero lo stesso Copernico, Galileo, Keplero, fino a Newton, vero fondatore della mentalità scientifica moderna. Con Newton si costruisce proprio quel quid cosiddetto oggettivo, congetturato senza più alcuna relazione con un’esperienza diretta dei fatti. Con Newton viene affermata l’aspirazione a separare del tutto l’esperienza fatta nel corpo fisico umano e ad oggettivare ciò che in passato si era concepito come strettamente congiunto con tale esperienza. Tramite tale separazione nasce la fisica moderna: “solo per effetto di tale separazione”. Con tale separazione però non è più possibile esprimere secondo criteri scientifici per esempio l’idea di moto. Senza la mia partecipazione al moto in quanto osservatore mi sarà infatti completamente indifferente se sia quel tale oggetto a muoversi rispetto a un altro o se sia quest’altro ad essere in movimento. Per far capire meglio quest’idea, si pensi al trucco usato nel cinema grazie al quale l’attore che sta al volante di un auto ferma in uno studio cinematografico, pare essere in corsa perchè numerose immagini di una strada e di un paesaggio sfilano dietro di lui in velocità. Se io guardo queste immagini ho l’illusione del movimento di un oggetto che però nella realtà è fermo. Quel movimento è dunque qualcosa di relativo. Nel caso in cui invece sia io a camminare realmente, nessuno, neanche la “Scienza” dovrebbe poter decretare, neppure secondo la teoria della relatività di Einstein, che è indifferente o relativo se sia io a muovermi o se sia il terreno a farlo in direzione opposta. Eppure la scienza di oggi ha ancora questa pretesa, una pretesa “scientifica” costruita su concetti totalmente inattuabili. Se da una parte Newton era ancora del tutto certo di poter ammettere dei moti assoluti, con pensieri basati su una concezione della matematica totalmente quantitativa, dall’altra, pensatori come Einstein si accorgono che assieme all’esperienza interiore l’uomo si stava perdendo anche la conoscenza del moto. La teoria della relatività di Einstein diventa un paradosso storico, una necessità storica: dovrà esistere fino a quando si riuscirà a farne a meno. Infatti, “volendo conseguire conoscenza del moto o dello stato di quiete, occorre partecipare all’esperienza del moto o dello stato di quiete, ma se non vengono sperimentati, perfino moto e quiete sono reciprocamente soltanto relativi. Il dilemma di oggi è appunto questo: superare la teoria della relatività assieme al relativismo del pensiero odierno, sconfinante nel nichilismo.

Published in: on luglio 23, 2008 at 6:33 am  Comments (2)  

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2 commentiLascia un commento

  1. Blog assolutamente pregevole e interessante. Cio che, pero’, più mi stupisce (ma son vicino a darmene una ragione) è che ancor oggi, nonostante Einstein stesso sia stato, in termini evolutivi, superato dai successivi sviluppi del suo pensiero, nonostante siano ormai conosciute (anche se, ahimè non sempre comprese) le implicazioni della meccanica quantistica, nonostante l’osservatore di un fenomeno sia ormai da decenni considerato addirittura “partecipatore”, data la sua riconosciuta importanza per la definizione e la stessa esistenza dell’evento, nonostante le affascinati architetture disegnate dai diagrammi di feynman nella’abito della teoria dei campi, o dai diagrammi basati sulla “matrice S”, in cui viene teorizzata una meravigliosa alchimia in cui ogni “particella” muta se stessa in un’altra in una completa interazione con l’universo, nonostante si sia giunti a considerare la materia come semplice forma in cui l’energia si manifesta.
    Nonostante questa meravigliose esperienze del pensiero abbiano influenzato e illuminato altre discipline del sapere (basti pensare alla psicologia analitica di Jung o alle basi delle Costellazioni Familiari di Hellinger)
    Nonostante tutto ciò, dicevo, ancor oggi si insegna nelle scuole che esistono particelle indivisibili di “materia”
    Ancor oggi, dopo che si è provato che i sistemi sono relativi, si cerca un sistema oggettivo per valutare l’universo.
    Mi vengono alla mente le parole del Sakyamuni “La Verità è cio che è utile”
    Newton va bene se si vogliono costruire macchinari nel nostro piccolo mondo tridimensionale.
    E’ molto probabile, poi che, se sostiamo sotto un albero di mele mature…qualche mela ci cada in testa.
    Ma basta cambiare piano dell’esperienza e le regole di newton diventano inutili. Inutili, quindi non vere.
    La materia è spirito e lo spirito è materia.
    Sono due aspetti dell’essere.
    Ciò che appare vero in un contesto appare falso in un altro.
    Ciò che appare come materia discriminata in un contesto appare come un continuo di energia in un altro.
    La verità è ciò che è utile.
    Ho scritto questo intervento di getto senza alcuna pretesa dottrinale e chiedo scusa delle imprecisioni.
    Ti ringrazio per avermi dato l’occasione di esprimere un pensiero…vero nella misura in cui sarà utile.
    Nicola D’Orazio

  2. Nice response in return of this query with genuine arguments and explaining
    everything about that.


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